L’ultima frontiera della medicina personalizzata dei tumori è l’immunoterapia.
L’idea di per se non è nuova né sorprendente: nel 1909 il premio Nobel Paul Ehrlich suggerì che la battaglia tra il sistema immunitario e i tumori sia quotidiana, ma il più delle volte fortunatamente il sistema immunitario vince.
Oggi sappiamo che quasi ogni giorno ognuno di noi sviluppa cellule che – per una serie di eventi – accumulano mutazioni e non rispettano i checkpoint di crescita cellulare, diventano “strane” e il sistema immunitario le riconosce e le distrugge.
Pertanto – con un ragionamento superficiale e cavalcato da qualcuno – si potrebbe pensare che invece di utilizzare dei farmaci si potrebbe dare un maggiore spinta al sistema immunitario. Questo approccio è appunto interessante ma difficilmente applicabile in pratica, schematicamente per due motivi:
- Se il sistema immunitario viene spinto troppo si ha rischi di sviluppare reazioni autoimmuni (cioè il sistema immunitario riconosce come “strane” anche le cellule del nostro corpo);
- Spesso il sistema immunitario di un paziente oncologico funziona bene… ma il tumore si sviluppa in maniera tale da “mascherarsi” al sistema immunitario.
In realtà lo sviluppo di un tumore è – nella sua drammaticità – un fenomeno biologicamente estremamente interessante: c’è un continuo adattamento evolutivo tra l’ospite e il tumore, per questo è così difficile da combattere.
Tra le linee più avanzate nella terapia immunologica ci sono proprio quelle di proporre dei farmaci che consentano proprio di “smascherare” il tumore o di “attivare” specifici checkpoint del sistema immunitario.
L’immunoterapia è molto potente, ma purtroppo funziona solo in una frazione di pazienti che, ad oggi, non sono facili da individuare in anticipo. Le motivazioni sono piuttosto complesse e questo recente focus del Memorial Sloan Kettering Cancer Center le analizza in maniera approfondita ma comprensibile.
E’ quindi quantomai urgente sviluppare dei sistemi che consentano una predizione di risposta più precisa.
Al momento il principale marcatore analizzato è PDL-1, ma il sistema immunitario è molto complesso e non basta un marcatore, inoltre si è alla ricerca di marcatori oggettivi, mentre l’immunoistochimica lascia grande margine all’operatore.
Si sono anche riscoperti marcatori “storici” che evidenziano alcuni “difetti” nel tumore, in particolare una incapacità da parte delle cellule di riparare il DNA danneggiato (dMMR) e/o una alta instabilità dei microsatelliti (MSI).
L’effetto finale dei difetti di riparazione del DNA danneggiato è evidentemente il Tumor Mutation Burden (TMB) ossia il carico (numero) di mutazioni del tumore: in pratica più mutazioni il tumore sviluppa, più il tumore diventa “particolare”, antigenico e quindi riconoscibile da sistema immunitario.
Recenti studi infatti associano un alto TMB ad una maggiore possibilità di risposta all’immunoterapia. Per maggiori dettagli può essere interessante questo articolo su GEN.
Concentrarsi sull’effetto finale, e quindi sul TMB, permetterebbe probabilmente una maggiore accuratezza predittiva.
C’è comunque ancora molto da fare, anche per la parte diagnostica: “classicamente” il TMB si calcola sull’intero Esoma (la parte del genoma codificante per proteine, oltre 20.000), mentre negli ultimi mesi – per rendere l’analisi più economica sia dal punto di vista dei tempi che dei costi – si sta cercando di selezionare e ridurre fortemente il numero di geni da analizzare.
Insomma la strada è ancora lunga, ma mai noiosa.